Smart working: l’ufficio che ti porti addosso

Dovevi lavorare ovunque: alla fine lavori sempre.

Ore 9:07. Sei seduto al tavolo della cucina, laptop acceso, tazza di caffè a metà.
Il pigiama è ancora addosso, ma nella griglia di Teams sembri in giacca e cravatta (grazie sfondo blur).
Il bello dello smart working? Nessuno ti vede le ciabatte.
Il brutto? Nessuno ti vede staccare.


La promessa della libertà

Lo smart working era nato come promessa di emancipazione. Lavorare senza traffico, senza badge, senza orari scolpiti nella pietra. “Lavora ovunque, vivi meglio”: lo slogan non scritto della rivoluzione digitale.
Alvin Toffler negli anni ’70 parlava già di telecommuting come del futuro del lavoro: case più piene di computer che di pendolari. Sembrava un’utopia: più tempo con la famiglia, più autonomia, meno controllo.

Poi è arrivata la pandemia, e quella promessa si è materializzata di colpo. Niente uffici, solo salotti trasformati in open space improvvisati. E lì è successo qualcosa: non è stato il lavoro a liberarsi dell’ufficio. È stato l’ufficio a trasferirsi a casa nostra.


L’ufficio in pigiama

Shoshana Zuboff, in The Age of Surveillance Capitalism, spiega che la tecnologia non è mai neutrale: ogni nuovo strumento porta con sé nuove forme di controllo. Lo smart working non ha fatto eccezione.
Il badge da timbrare è sparito, ma al suo posto sono arrivati i log di connessione, le notifiche su Slack, la reperibilità “giusto per una call veloce”.
Il capo non passa più davanti alla tua scrivania: adesso entra nel tuo salotto, ti bussa nel pomeriggio, a volte anche la sera. E tu, per non sembrare meno produttivo, rispondi. Sempre.

All’inizio sembrava libertà. Poi ti sei accorto che la scrivania era sempre aperta, perché coincideva con la tua cucina. Che la sala riunioni era sempre pronta, perché bastava un link. Che la reperibilità era senza limiti, perché se sei a casa “che problema c’è a collegarti un attimo?”.


Auto-sfruttamento consensuale

Byung-Chul Han lo chiama così: auto-sfruttamento consensuale. Non serve più un capo che ti dica “resta fino a tardi”: sei tu che ti auto-convinci che è meglio rispondere subito, collegarti sempre, farti vedere attivo.
La libertà promessa diventa una gabbia invisibile, perché non esiste più un luogo dove il lavoro non ti segua. Il letto diventa sala riunioni, il weekend diventa “tempo utile per rispondere a due mail”, la vacanza diventa “basta che ho il wi-fi”.

Il vero problema dello smart working non è il lavoro a distanza, ma il fatto che ci siamo portati a casa la stessa mentalità dell’ufficio. Abbiamo spostato il contenitore, non il contenuto.


Il mito della produttività

Cal Newport, in Deep Work, ci avverte che la produttività reale nasce da concentrazione e profondità, non da interruzioni continue. Ma il lavoro da remoto ha spesso moltiplicato proprio quelle interruzioni: notifiche, chat, riunioni lampo che si trasformano in maratone.
Siamo sempre connessi, sempre disponibili, sempre pronti. Ma produrre di più non significa vivere meglio. Anzi: spesso significa solo vivere meno.

Il mito della produttività ci ha fregati due volte: in ufficio misuravamo le ore seduti alla scrivania, a casa misuriamo le ore online. È la stessa logica, con un vestito diverso. Non è smart: è solo un ufficio esteso fino al frigo.


Comicità involontaria (e amara)

Lo smart working ha portato anche la comicità involontaria: cani che abbaiano durante riunioni strategiche, gatti che attraversano tastiere diventando stakeholder per caso, figli che irrompono in videochiamata ricordando a tutti che no, non sei in una torre d’avorio.
Abbiamo trasformato le nostre case in sitcom non retribuite. Il problema è che non si ride davvero: il rumore di fondo è la fatica, non la risata.


Chi lo ama (e non ha tutti i torti)

Eppure non è tutto negativo. C’è chi nello smart working ha trovato un dono: addio pendolarismo, più tempo con i figli, possibilità di vivere fuori dalle città, autonomia nella gestione delle giornate. Per molti, è stata la prima volta che il lavoro non occupava fisicamente ogni spazio.
La verità è che lo smart working non è un male assoluto. È uno strumento. Può essere liberazione o prigione, dipende da come lo si usa e soprattutto da come le aziende scelgono di interpretarlo.


Ripensare il lavoro

Hannah Arendt, in Vita activa, distingue tra lavoro, opera e azione. Lo smart working rischia di ridurci di nuovo solo al “lavoro”: fare, produrre, eseguire. Ma potrebbe essere anche occasione per riscoprire opera e azione: creare, pensare, collaborare in modo diverso.

André Gorz, teorico del post-lavoro, parlava di riduzione del tempo lavorativo come strada verso una società più libera. Forse lo smart working, se interpretato con coraggio, può diventare proprio questo: non un modo per lavorare sempre, ma per lavorare meno e vivere di più.


Manifesto finale

Lo smart working doveva renderci liberi e rischia di averci solo incatenati al wi-fi.
Non è smart, non è working: è l’ufficio che ci portiamo addosso.
La vera sfida non è accettarlo così com’è, ma reinventarlo.

Non basta cambiare la location del lavoro se lasciamo intatta la logica che lo governa. Non serve rispondere a un’email dal divano invece che dalla scrivania se continui a pensare che il tuo valore sia misurato dalla tua disponibilità.

La libertà non è la connessione 24/7.
La libertà è poter dire: “Per oggi basta così”.
E non sentirsi in colpa.

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