Aziendalese: anatomia di una lingua tossica

Gli uffici hanno il loro idioma privato.
Non è italiano, non è inglese: è aziendalese.
Un dialetto che trasforma frasi innocue in strumenti di controllo, e conversazioni banali in piccoli ricatti emotivi.

Non ridete troppo: non sono solo parole.
Sono specchi della cultura che ci tiene svegli fino a tardi, convinti di fare carriera mentre in realtà stiamo solo traducendo la nostra vita in linguaggio PowerPoint.

Se Orwell fosse vivo, scriverebbe un glossario.
Se Foucault fosse in open space, si butterebbe dalla finestra.
Io invece vi lascio un dizionario caustico: ecco cosa dicono davvero le frasi più usate in ufficio.


“Ti rubo solo 5 minuti”

Questa non è una richiesta.
È un invito coatto a rientrare in gabbia.
Non ci sono più orari fissi: il furto arriva quando hai deciso di spegnere la testa, non il PC.

“Cinque minuti” significa: lascia perdere i tuoi piani, torna produttivo per me.
E non sono mai cinque. Sono quaranta, con effetto domino su cena, palestra, figli, serie Netflix.

La verità è che il “tempo” in azienda non è mai neutro: è una moneta di scambio che ti rubano con un sorriso.
Se fosse una tassa, almeno la pagheresti sapendo quanto. Così invece ti accorgi del debito quando sei già esausto.


“Facciamo un meeting veloce”

Il meeting veloce non esiste.
È la fata turchina del capitalismo: tutti ci credono, nessuno l’ha vista.

Non è una riunione, è un rituale.
Si comincia con “sarà una cosa breve” e si finisce a litigare su chi deve aggiornare il documento condiviso.
Nel frattempo la vita scorre: miliardi buttati, colonie su Marte rimandate, e tu che invecchi davanti a una slide con scritto alignment.

Non stai parlando: stai partecipando a una liturgia in cui si brucia tempo come se fosse incenso.


“Siamo una famiglia”

La più subdola di tutte.
Famiglia dovrebbe significare calore, sicurezza, reciprocità.
In ufficio vuol dire disponibilità illimitata, reperibilità h24, straordinari mascherati da “spirito di squadra”.

È gaslighting collettivo: ti convincono che il sacrificio è amore, che la reperibilità è affetto, che la rinuncia è appartenenza.
Ma alla prima crisi, la “famiglia” si dissolve più velocemente di un gruppo WhatsApp dopo la cena di Natale.

Non siamo famiglie.
Siamo sitcom: sorrisi di facciata, ma a fine stagione metà cast sparisce.


“Qui siamo tutti sullo stesso livello”

Tradotto: “Ti do l’illusione di uguaglianza mentre controllo anche il numero delle tue pause caffè.”

Scrivanie uguali, badge identici, open space democratici: la scenografia è piatta.
Il potere no.

L’open space è un panopticon contemporaneo: vedi tutti, sei visto da tutti, non sai mai chi guarda cosa.
E la frase serve solo a mascherare la realtà: i livelli si rivelano quando arriva la crisi, e qualcuno dall’alto cala la mannaia delle decisioni.


“È un’opportunità di crescita”

La frase jolly, il Joker del mazzo.
Può voler dire tutto.
Nella pratica significa: “farai più lavoro gratis e sii felice di ringraziare.”

La crescita di solito riguarda l’ego del capo, i numeri di Excel o la lunghezza delle call.
La tua? Rimandata a data da destinarsi.

È la neolingua perfetta: chiamare sfruttamento “opportunità”.
Così sorridi mentre ti caricano di altro peso.


Bonus track: “Ci allineiamo?”

Non è mai una domanda.
È un colpo di grazia linguistico:
“Ho già deciso, ma voglio che tu dica di sì per fingere che sia democrazia.”

Non è collaborazione, è teatro.
Un simulacro, direbbe Baudrillard: facciamo finta di coordinarci, ma stiamo solo sincronizzando Outlook.
E Outlook, come sempre, è già crashato.


👉Manuale di autodifesa

L’aziendalese non è solo un dialetto noioso: è una grammatica di potere.
Ti addestra a sentirti in colpa, a regalare tempo, a chiamare sacrificio “famiglia” e sfruttamento “opportunità”.

Non basta riderne: bisogna smontarlo, frase per frase.
Perché le parole non sono neutre.
E se le lasci lì, ti scavano addosso fino a farti parlare come un manager in stage di motivazione.

La prossima volta che qualcuno ti dice “ti rubo solo 5 minuti”, rispondi onestamente:
“No, me ne hai già rubati troppi.”

😉

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