Viviamo in un’epoca in cui la fatica è invisibile.
Non ci frusta più un capo urlante in fabbrica, non ci rincorre un padrone col cronometro.
Siamo noi stessi a correre, a consumarci come criceti con l’abbonamento premium a Slack, illusi di dimostrare al mondo che valiamo qualcosa.
Il filosofo Byung-Chul Han ha dato un nome elegante a questa tragedia con sottotitoli: “La società della stanchezza.”
Un mondo dove il nemico non è più fuori, ma dentro. Non più il capitale, ma la tua agenda condivisa.
Il risultato? Una stanchezza cronica, senza colpevole preciso, che ronzicchia sotto la pelle come un elettrodomestico lasciato in stand-by.
Il burnout come religione pop
Negli anni ’90 c’era Kurt Cobain che cantava:
“I’m so happy ‘cause today I found my friends, they’re in my head.”
Oggi abbiamo tizi in coworking che dicono: “Sono devastato, ma almeno sto facendo networking.”
Il burnout non è più un sintomo: è un brand.
Abbiamo trasformato la parola stanchezza in un hashtag da infilare nelle stories con filtro seppia: MondayMood, #TooTiredToFunction, #NoDaysOff.

Lo sappiamo tutti.
Quante volte hai sentito qualcuno vantarsi con orgoglio: “Dormo solo 4 ore a notte”?
E invece di chiamare un medico, gli fai i complimenti.
Essere esausti è diventato la medaglia d’onore dell’era contemporanea.
Il martirio laico del XXI secolo.
Se sei “busy”, allora sei importante.
Se sei “always on”, allora sei desiderabile.
In realtà sei solo un iPhone del 2017: caldo, lento e perennemente con la batteria al 3%.
E intanto, Hannah Arendt se la ride dall’aldilà: “Ve l’avevo detto che la vita non è solo lavoro, ma voi niente, avanti così con i pitch deck.”
Il fuori ufficio come atto sovversivo
“Fuori ufficio” non è un messaggio automatico nella mail.
È la forma contemporanea di anarchia dolce.
È un modo di dire: “Senti, capitalismo, oggi ti leggi da solo le tue mail.”
Scrivere “torno lunedì” non è un promemoria, è un manifesto.
È dichiarare che il tempo non si misura solo in KPI, call d’allineamento e presentazioni in PowerPoint con font sbagliato.
È ricordare che la vita non è un file condiviso, ma un corpo che ha fame, sete e bisogno di silenzio.
Fuori ufficio significa:
- chiudere il laptop quando sei ancora vivo, non quando sei uno scheletro digitale,
- bere un caffè senza trasformarlo in carburante per la prossima task,
- dire “basta così” senza sentirti un fallimento.
La presenza contro la stanchezza
Viviamo immersi in un multitasking patologico.
Scriviamo mail mentre mastichiamo insalate tristi, ascoltiamo call mentre camminiamo, rispondiamo a messaggi anche dal bagno.
La nostra mente è come Chrome con 78 tab aperti, ognuna con l’audio che parte a caso.
Essere fuori ufficio significa esattamente l’opposto:
- un caffè bevuto caldo, non tiepido dopo tre notifiche,
- una passeggiata senza auricolari, dove l’unico rumore è quello dei tuoi passi,
- un libro letto due volte perché sì, ti piace davvero e no, non serve a niente.
Questa è la vera produttività che spaventa il sistema: non produrre un bel niente.
Pop culture e la glorificazione dello sfinimento
Hollywood ci ha già addestrati.
Il protagonista che lavora fino a notte fonda con la pizza fredda sul tavolo viene sempre ritratto come eroe.
Nessuno però ti fa vedere la parte in cui perde i capelli e sviluppa gastrite cronica.
Da Fight Club a Suits, da The Wolf of Wall Street alle bio di LinkedIn: il messaggio è sempre lo stesso.
Se non sei esausto, non vali.
Se non hai gli occhi rossi la mattina, vuol dire che non stai correndo abbastanza.
Ma lo diceva anche Seneca (prima di diventare trending topic involontario):
“Non è poco il tempo che abbiamo, è molto quello che sprechiamo.”
E guarda caso, noi lo sprechiamo fingendo di essere sempre impegnati.
La bugia dell’autosfruttamento felice
Byung-Chul Han lo dice chiaro:
Non è più il padrone esterno a imporci il ritmo, siamo noi a spingerci oltre.
Ci auto-sfruttiamo, convinti che correre significhi essere liberi.
Il risultato è che non c’è più nemmeno un colpevole da odiare.
Non puoi prendertela col capo se sei tu stesso a scrivere mail alle 23:47 “perché ci tenevi a consegnare in tempo.”
Non puoi maledire il lunedì se sei tu che hai accettato tre progetti extra “per farti vedere motivato.”
La società della stanchezza è questa: sei stanco, e la colpa è tua.
Geniale, vero? Il capitalismo ha trovato il modo di farti lavorare di più facendoti credere che sia una tua libera scelta.
La vera ribellione: dire “sono stanco” senza vergognarsi
In un mondo dove tutti ostentano energia inesauribile, dire “sono stanco” è rivoluzionario.
È ammettere che non sei una macchina, che non sei un algoritmo che macina output.
La vera libertà non è correre di più.
È fermarsi e dire: “no grazie, resto qui seduto a fissare il vuoto.”
E non serve scappare in un ashram in India.
Può bastare un pomeriggio senza notifiche, un pranzo senza telefono, una conversazione che non finisce con “ti mando la presentazione.”

Manifesto della lentezza (caustico ma sincero)
- Non vantarti della tua stanchezza. Non sei un eroe, sei un candidato al pronto soccorso.
- Smetti di romanticizzare il multitasking. Non sei Iron Man, sei solo distratto.
- Ricorda che “fuori ufficio” è un diritto, non un lusso.
- Coltiva il tempo improduttivo. È l’unico che non ti può essere rubato.
- Abbi il coraggio di annoiarti. È lì che torna la vita.
Siamo stanchi non perché facciamo troppo, ma perché non ci fermiamo mai.
Viviamo in una società che ci dice che valiamo solo se corriamo, se accumuliamo, se performiamo.
Ma la verità è che valiamo anche quando non facciamo niente.
“Fuori ufficio” non è un bottone automatico: è un atto di resistenza.
È il vaccino contro il burnout, la lentezza contro l’urgenza, l’ascolto contro il rumore bianco.
La vera rivoluzione non è correre di più.
È avere il coraggio di dire:
“Sono stanco. E va bene così.”

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